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Genitorialità e Senso di Inadeguatezza: Cosa Fare Quando ti Sembra di Non Bastare

giu 20

7 minuti di lettura

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inadeguatezza
"La bellezza dell’essere umano sta nel fatto che possiamo essere un’opera incompiuta e una meraviglia allo stesso tempo." – Brené Brown

👨‍👩‍👧 Caro Genitore,


Hai mai avuto la sensazione di non essere abbastanza, anche mentre fai l’impossibile?

Di arrivare a fine giornata con la voce stanca, il corpo provato e la mente affollata… ma comunque con un dubbio che punge: “E se non bastasse?


Hai dato tutto: il tuo tempo, la tua pazienza, la tua presenza. Hai organizzato, risolto, ascoltato, trattenuto parole, ingoiato frustrazioni, improvvisato soluzioni. Eppure, si affaccia quella vocina insistente. Quella che non guarda ciò che hai fatto, ma ciò che (forse) avresti potuto fare meglio. Quella che non ti dice “grazie”, ma “non hai fatto abbastanza”.


Benvenutə in una delle trappole emotive più diffuse tra chi si prende davvero cura: il senso di inadeguatezza nonostante l’impegno totale.

Un paradosso che conoscono bene proprio i genitori più presenti, più consapevoli, più attenti.

Ma questo sentire – che non sei solə a provare – non è una prova della tua incapacità.

È semmai un segnale della tua sensibilità.


Riconoscere questa dinamica è il primo passo per trasformarla.




Perché ci sentiamo inadeguati anche quando stiamo facendo del nostro meglio?


Ecco cosa succede: più ci impegniamo a fare bene, più sembriamo vulnerabili al rischio di sentirci inadeguatə. Non perché stiamo facendo troppo poco, ma perché – a volte – ci dimentichiamo di guardarci con lucidità e misura.


Ecco alcune dinamiche ricorrenti che alimentano questo senso di insufficienza, anche nei genitori più attenti e coinvolti:


🔸 Cerchiamo conferme in un mondo che vende modelli, non verità

Viviamo espostə a una continua vetrina di genitorialità performativa.

Non è il confronto in sé a farci male, ma il bisogno latente di approvazione che proiettiamo su ciò che vediamo. Post, storie, racconti idealizzati diventano metri di giudizio silenziosi: senza accorgercene, confrontiamo la nostra realtà completa con l’apparenza parziale degli altri.


E il risultato è sempre lo stesso: un senso di distanza tra chi siamo e chi pensiamo di dover essere.



🔸 Interpretiamo ogni fatica dei figli come una prova a nostro carico

Un pianto prolungato, una crisi di rabbia, un rifiuto ostinato diventano – nella nostra mente – una valutazione indiretta della nostra competenza educativa. Come se il nostro valore si misurasse sulla rapidità con cui calmiamo, convinciamo, risolviamo. Ma i bambini non ci mettono alla prova. Ci mostrano il loro mondo interiore. E richiedono ascolto, non prestazione.


Imparare a stare nella fatica senza sentirsi sbagliatə è un passo evolutivo per loro… e per noi.



🔸 Confondiamo il nostro ruolo con la nostra identità

Il rischio più grande non è la stanchezza, ma l’auto-perdita: quando diventiamo solo “il genitore di”, e ci dimentichiamo chi siamo, cosa ci nutre, cosa ci definisce oltre la cura.

Quando questo accade, ogni inciampo con lə figliə diventa un attacco personale. Ogni limite che incontriamo si trasforma in una colpa.


Occupandoci dell’identità possiamo permettere anche al ruolo di evolvere con più leggerezza e lucidità.


 

🔸 Confondiamo la fatica con la prova del fallimento

Abbiamo interiorizzato l’idea che se qualcosa ci risulta difficile, allora siamo sbagliatə. Se educare richiede energia, pazienza, ripetizione, allora forse non siamo abbastanza capaci.

In realtà l’educazione non è mai lineare, men che meno comoda.


La fatica non è un errore da correggere. È un indicatore che stai attraversando un processo, una trasformazione, un cambiamento



🔸 Ci identifichiamo con l'effetto, ma non consideriamo il contesto

Quando qualcosa non funziona – una routine che salta, una comunicazione che si inceppa, una giornata che esplode – tendiamo a chiederci: “Cosa ho sbagliato?”

Ma raramente ci chiediamo: “In che condizioni sto portando avanti tutto questo?”

Viviamo immersə in un contesto sociale che non sostiene la genitorialità, ma la carica di aspettative. Poche reti, poco tempo, poche risorse emotive e logistiche.




Le radici invisibili dell’inadeguatezza


Questo senso costante di non essere mai davvero all’altezza non nasce nel presente. Affonda le sue radici in profondità, spesso in zone della nostra storia che abbiamo normalizzato o a cui non abbiamo mai davvero dato voce.


Ci sono le credenze limitanti, quelle frasi che si annidano nella mente e si attivano nei momenti di maggiore fragilità. Pensieri come “devo essere sempre paziente”, “un buon genitore non sbaglia mai”, “se mi arrabbio, traumatizzo” non sono solo parole: diventano filtri attraverso cui giudichiamo ogni nostro gesto, ogni nostra reazione. E più cerchiamo di aderire a questi standard, più ogni deviazione – del tutto naturale – ci appare come una sconfitta personale.


A queste si aggiungono i modelli educativi ricevuti. Le esperienze vissute nella nostra infanzia diventano spesso riferimenti silenziosi che orientano le nostre scelte, anche quando crediamo di voler fare “il contrario”. Se siamo cresciutə senza ascolto, possiamo sentirci obbligatə a essere sempre disponibili. Se abbiamo conosciuto durezza o solitudine, potremmo convincerci che nostro figlio o nostra figlia non debba mai sperimentare frustrazione, dimenticando che educare non significa proteggere da tutto, ma accompagnare attraverso.


Infine, ci sono i valori imposti, quelli che non abbiamo scelto ma che agiscono dentro di noi come regole non scritte. L’idea che “una brava mamma è sempre presente”, o che “un padre serio lavora e non si lamenta”, non nasce dal nostro sentire autentico, ma da una cultura che spesso carica i ruoli genitoriali di aspettative rigide e poco sostenibili. Il risultato è che ci si sforza di aderire a un copione, anziché costruire un ruolo che rispecchi davvero la persona che si è.




La domanda da cui partire 


Potremmo iniziare da una domanda tanto semplice quanto decisiva.

Non: “Cosa non sto facendo?”

Ma: “Sto facendo le scelte che contano davvero?”


Nel quotidiano, è facile cadere nella trappola dell’iperattivismo: si accumulano impegni, si moltiplicano le soluzioni, si rincorre il controllo. Il rischio è quello di confondere l’efficienza con la qualità della relazione. Fare tanto non garantisce automaticamente benessere, né per lə figliə né per noi. Spesso, ciò che manca non è un altro strumento o un’ulteriore strategia, ma una direzione chiara e allineata ai propri valori.

L’educazione evolutiva ci invita a spostare il focus dal fare al sentire, dall’agire automatico alla presenza consapevole.


Da dove iniziare, allora, per uscire dal senso di inadeguatezza?

Dal recupero di uno spazio intenzionale, in cui poter rivedere priorità, ridefinire aspettative, rimettere al centro ciò che ha valore.




5 passi per uscire dal loop dell’inadeguatezza genitoriale


1. Distinguere l’inadeguatezza reale da quella percepita

Il primo passo concreto per uscire dal senso costante di inadeguatezza è imparare a distinguere tra ciò che è reale e ciò che è frutto di una distorsione interna.

Non tutte le sensazioni di fallimento corrispondono a un errore reale.


Per questo può essere utile fermarsi e chiedersi con onestà: 

👉 “Mi sento inadeguatə perché ho mancato un bisogno reale di mio figlio o mia figlia, o perché ho deluso un’immagine ideale di come dovrei essere come genitore?”


Spesso la sofferenza non nasce da ciò che accade tra noi e lə nostrə figliə, ma da ciò che accade dentro di noi.



2. Fermarti e riconoscere cosa stai già facendo

Nel vortice delle giornate, ciò che fai rischia di diventare invisibile anche a te stessə.

Le azioni che si ripetono – preparare, accompagnare, contenere, organizzare, ascoltare, anticipare – finiscono per sembrare scontate, quasi automatiche. Ma non lo sono.


Per questo è fondamentale fermarti. Non metaforicamente: proprio fermarti davvero.

Prenditi qualche minuto. Prendi carta e penna – sì, fisicamente – e scrivi tutto ciò che fai, anche ciò che reputi irrilevante. Dalle cose più pratiche alle attenzioni più sottili. Dal “ho preparato la merenda” al “ho evitato di rispondere con rabbia anche se ero stanca”, fino al “ho detto ‘ti voglio bene’ anche dopo un conflitto”.


Scrivere ti permette di rendere visibile ciò che la mente dà per scontato.



3. Riscrivere la tua definizione di “bravə genitore”

Chi ha deciso che basti rispettare uno standard per sentirsi adeguatə?

Molte di queste immagini sul “bravo genitore” non nascono da te, ma al di fuori: sono costruzioni sociali, culturali, familiari che hai interiorizzato nel tempo. Modelli rigidi, spesso irraggiungibili, che diventano criteri silenziosi di autovalutazione.


Il problema è che più ti sforzi di aderire a un’immagine ideale, più rischi di allontanarti da ciò che è vero, sostenibile, tuo.


Nel percorso Evolution Parents dedichiamo un’intera sessione proprio a questo: a riconoscere e smontare le immagini ideali di genitorialità che ci condizionano, per costruire una visione più autentica, personale e centrata su ciò che conta davvero per te e per la tua famiglia.



4. Riconoscere che il comportamento dei figli non misura il tuo valore

Quando unə bambinə esplode in un urlo, si oppone con forza, piange senza tregua o si chiude in silenzio, è facile sentire quel comportamento come un giudizio implicito sul proprio operato. “Non mi ascolta.” “Sto sbagliando qualcosa.” “Forse non sono capace.”


Ma un comportamento disorganizzato non è la misura della tua inadeguatezza.

È il segnale che chi hai davanti sta affrontando qualcosa che non riesce ancora a regolare da solə. Un’urgenza emotiva che non ha ancora il linguaggio per esprimersi in modo chiaro.


In questi momenti, è fondamentale spostare lo sguardo dal comportamento al bisogno che lo genera. Fermati e chiediti: “Cosa mi sta comunicando, al di là del modo in cui lo sta facendo?”



5. Confrontati meno, connettiti di più

Il confronto è un processo naturale, ma diventa disfunzionale quando si fonda su idealizzazioni. Confrontarsi con ciò che si vede – o si presume – negli altri, soprattutto in contesti digitali, può generare una percezione distorta della realtà e una costante svalutazione del proprio operato.

Nel momento in cui ci misuriamo con modelli perfetti, filtrati o parziali, è facile sentirsi indietro, mancanti, incapaci.


L’antidoto a questo meccanismo non è chiudersi, ma orientarsi verso forme di relazione più autentiche e nutrienti. Coltivare connessione significa scegliere consapevolmente di frequentare spazi – anche online – in cui sia possibile raccontarsi con verità, senza dover dimostrare, giustificarsi o mascherare la complessità del proprio percorso. Spazi in cui le fatiche non siano percepite come un fallimento individuale, ma riconosciute come parte integrante dell’esperienza educativa.


È in questi contesti che si genera un senso di appartenenza reale, che permette di normalizzare il dubbio, la difficoltà, il tentativo. E che contribuisce a ricostruire uno sguardo più equilibrato su di sé come genitore e come persona.



Prima di salutarci...


Siamo arrivati alla fine, Caro Genitore, e come avrai capito l’inadeguatezza non si combatte facendo di più. Non si supera aggiungendo compiti, regole, tentativi forzati di controllo.

Al contrario: si trasforma facendo spazio.

Spazio alla consapevolezza, all’ascolto, alla possibilità di guardarsi con uno sguardo più lucido e meno giudicante. Perché sentirsi inadeguatə non è il segnale che stai facendo male. È il segnale che è arrivato il momento di rivedere i criteri con cui stai valutando te stessə.




A presto.

Silvia.



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